Il negozio di parrucchiera era all’angolo della strada, e Gabriella ci andava quasi puntualmente ogni settimana. Distava poche centinaia di metri dalla sua abitazione, un appartamento moderno con ascensore, posto in un comprensorio con molte piante e una fontana artistica al centro del viale d’ingresso.
Gina, parrucchiera per signora (così si chiamava il negozio) non era molto ampio, ma gli spazi erano ben organizzati e il personale svolgeva al meglio il proprio lavoro, senza intralci di attrezzi e profumi che avrebbero rallentato sicuramente il lavoro, se non fossero stati sistemati razionalmente e con cura.
Gina era la parrucchiera della famiglia Belardini da parecchi decenni, forse anche la nonna di Gabriella lo frequentava, ma lei questo non lo ricordava, perché la nonna era
morta quando lei aveva nove anni. Gina era una donna alta e robusta, con una
capigliatura così lunga e intensa che lei usava raccoglierla a mo’ di cipolla, ben fatta, sopra la nuca. Dava consigli più che ordini alle proprie lavoranti, che erano tre, e le
guidava nel lavoro e nell’accoglienza delle clienti. Era molto attiva e, tra lo scroscio del
getto tiepido che risciacquava i capelli e il rumore dei phon accesi, ogni tanto il negozio assumeva l’aspetto di una vera e propria “officina dei capelli”.
Quel giorno Gabriella, una ragazza minuta e silenziosa, aspettava il suo turno seduta
comodamente su una poltroncina accanto all’ingresso, sfogliando lentamente una rivista settimanale con molte fotografie all’interno. Ogni tanto si fermava incuriosita su una delle foto e leggeva la didascalia sottostante. Quando ebbe finito di leggere, si chinò su una grande cesta, posta a lato della sua poltrona, che conteneva altre riviste, mise a posto quella già vista e iniziò a cercarne un’altra. Mentre scostava con cura le riviste, ne osservò una che aveva una bella foto ingrandita di una ragazza bionda con rossetto rosa sulle labbra e un make-up ben fatto. La ragazza sorrideva con gioia, e i suoi occhi chiari erano molto vividi e lucenti. Quell’immagine, apparentemente semplice e normale, non avendo nessun segno particolare, fece trasalire Gabriella. Il cuore all’improvviso iniziò a battere più velocemente e un leggero rossore apparve sulle guance, un nervosismo inspiegabile la prese in tutto il corpo. Si sedette di nuovo cercando di riprendersi; poi, dopo diversi minuti ancora in questo stato, decise che un po’ d’aria le avrebbe fatto bene. Chiese alla signora Gina se poteva conservarle il posto per pochi minuti, e con una scusa uscì, iniziando a camminare velocemente intorno all’isolato.
Mentre camminava con passo deciso, respirava profondamente l’aria del primo pomeriggio, e tutto l’ossigeno che le affluiva al cervello l’aiutava a riflettere. Iniziò un’introspezione profonda. Il dialogo interno tra la testa e il suo corpo iniziò così a prendere forma a poco a poco, dapprima in modo drammatico, poi via via sempre più riflessivo.
No, no, oddio, non voglio diventare lesbica! Non lo voglio, non lo voglio e non lo voglio. Cosa sarebbe di me? Perché quella foto mi ha fatto trasalire tanto e mi suscitava
sensazioni particolari? Cosa sentivo? Piacere? Solo piacere? Oddio…
Camminando incrociava altre persone che andavano nella direzione opposta, ma lei non se ne curava, era concentrata sul suo stato e voleva avere a tutti i costi una risposta. Adesso la sua voce, anche con tono basso, aveva forma reale.
«Eppure gli uomini mi piacciono. Tanti bei giovani che ho conosciuto mi attraevano, non capisco… nche ora che sto con Giacomo, non ho nulla che possa farmi dubitare del contrario! Come mai allora…».
Per un attimo fermò i suoi passi e ripensò al giorno prima, quando si era salutata con una collega di lavoro giovane come lei. La mano della collega nella sua l’aveva fatta trasalire, come un momento prima, mentre osservava quel volto di donna stampato sulla copertina della rivista. Quella mano le suscitava piacere, voluttà, amore, due corpi nudi che si univano in un caldo abbraccio… Portò per un secondo le mani sul volto, inorridita, poi riprese a camminare. Disperata, mentre tornava a passi svelti da Gina, ripensò velocemente al suo rapporto con Giacomo, tanto per riepilogare e capire il suo corpo, la sua mente, chi lei fosse e cosa le stesse succedendo.
Giacomo era un ragazzotto sulla ventina di S. Giorgio a Cremano (un paese alle porte di Napoli), che Gabriella aveva conosciuto qualche anno prima durante una breve vacanza a Ischia con i suoi genitori. Di carattere Giacomo era intraprendente, ogni cosa che gli balzava alla mente correva subito a metterla in pratica, non conoscendo ostacoli; quello che aveva in animo di fare, quasi sempre riusciva a portarlo a termine. Questo aspetto aveva attratto subito Gabriella, che era esattamente l’opposto di Giacomo. Super- riflessiva, titubante e sempre in ansia, a domandarsi se avesse fatto bene o male a prendere le sue decisioni. Dopo la vacanza ad Ischia, presero a frequentarsi; ogni fine settimana a turno, ciascuno si spostava verso le rispettive residenze, ospite della famiglia dell’altro. Questa organizzazione rinsaldò nel tempo anche i legami con i genitori dei due giovani. Soprattutto Gabriella era molto apprezzata dalla madre di Giacomo, che si ricordava di essere stata simile a lei quando era più giovane, sempre in ansia nel decidere o programmare qualcosa.
Gabriella, l’anno successivo che aveva conosciuto Giacomo, fu stabilizzata al Comune di Roma come fisioterapista. Per lei, che lavorava ormai da diversi anni in una cooperativa di servizi per il Comune, era una gioia inaspettata. Ora forse poteva pensare ad avere una relazione seria e magari a mettere su famiglia, come le diceva per scherzo ogni tanto il padre: «Gabriella, quand’è che ti sistemi?».
I primi tempi con Giacomo furono meravigliosi, erano ben sintonizzati in quasi tutte le questioni che la vita poneva loro; avevano però delle accese discussioni sui vestiti e
sul trucco di Gabriella, perché a Giacomo non andavano affatto giù, il che rivelava una
insana gelosia difficile da controllare. Voleva una Gabriella meno appariscente, tutta per lui, al riparo da occhi indiscreti, che avrebbero potuto insidiare il suo possesso. Gabriella
cercava di accontentarlo, scegliendo gonne poco corte o pantaloni poco aderenti. Per il
trucco, aveva deciso per un po’ di mettersi solo lo smalto sulle unghie, e il resto del viso acqua e sapone. Giacomo apprezzava questo sforzo e, per gratificarla, le comprava spesso alcune spille di corallo che riusciva a trovare a buon prezzo a Torre del Greco. Sembrava proprio che il vedersi una volta a settimana funzionasse e che questo tipo di relazione potesse durare fino alle nozze.
Poi, una domenica, furono invitati a Napoli al matrimonio di amici di famiglia, e Gabriella non poté fare a meno di apparire bella e splendente come non mai. Si vedeva
che Giacomo era a disagio: si trincerò dietro un profondo mutismo. Rispondeva solo a
domanda, come negli interrogatori di polizia, e Gabriella arrancava sempre nel discorso, ponendo lei le domande. Per tutta la cerimonia non parlarono, rispondevano solo ai saluti e ai complimenti che Gabriella riceveva; poi, alla fine della messa, mentre erano un po’ appartati sul piazzale antistante la chiesa, Giacomo sbottò: «Ti dipingi come una dea, ti vesti come una di quelle per fare le acchiappanze, eh?».
«Di cosa parli?», chiese Gabriella meravigliata.
E lui, rabbioso: «Di cosa parlo?! Di quello che sei! Vuoi avere il codazzo degli uomini dietro, eh?!».
«Che ti piglia, Giacomo?» fece Gabriella, incredula e spaventata. «Non sono una di
quelle che tu dici. Cosa volevi? Che venivo al matrimonio con il saio e una corona di spine in testa?».
«No», disse Giacomo, «ma questa volta hai proprio esagerato! Io non ci sto con una
così!» esclamò indispettito, e si allontanò.
Per tutta la giornata tennero un atteggiamento formale l’uno verso l’altra, poi si salutarono. Dopo qualche giorno ebbero un chiarimento telefonico e decisero di non
vedersi più. Il loro distacco durò oltre un anno, e Gabriella continuò la sua vita: lavoro,
letture, svaghi con gli amici, la famiglia. Ogni tanto si vedeva con un ragazzo di Fermo, educato e riflessivo, che frequentava l’università a Roma. Andavano a teatro o a sentire
spettacoli di musica popolare in qualche circolo privato. Poi un venerdì pomeriggio
ricevette la telefonata di Giacomo che le chiedeva come stava. Non lo nascondeva, ma neppure poteva negare che quella telefonata le facesse piacere. Anche lei si informò
della salute di Giacomo e della sua vita. Ora lui lavorava in un ufficio di progettazione a
Napoli, ma il suo compito era tenere solo i contatti con i clienti. Decisero di rivedersi di nuovo, e lei il sabato prese il primo treno utile per S. Giorgio. In un momento di assenza
dei familiari, fecero di nuovo l’amore e sembrò che il loro dialogo potesse riprendere.
Così fu. Gabriella sentiva di volergli bene e di voler stare di nuovo con lui, nella speranza di arrivare fino in fondo.
«Devo andare a trovare Roberto» pensò, mentre Gina in persona le asciugava i capelli con il phon e glieli scioglieva sistemandoli dietro le spalle. «È meglio che mi consigli con lui, anzi gli chiederò cosa ne pensa del mio stato».
Roberto era un amico di infanzia di Gabriella: abitava in un edificio di via dei Gracchi, al terzo piano di un grande palazzo a forma di quadrilatero dei primi del
Novecento, a ridosso del centro storico. Di quel condominio Gabriella conosceva quasi tutti, avendo abitato per parecchi anni un paio di isolati più avanti, esattamente al
numero civico 56. I giovani del condominio di via dei Gracchi 15 avevano pressappoco la stessa età di Gabriella, e con loro aveva avuto esperienze di giochi sportivi, studio, e con alcuni aveva frequentato la stessa comitiva. Quando avevano dieci o undici anni,
qualche pomeriggio andavano in sei o sette a giocare a piazza S. Pietro.
Negli anni Cinquanta a S. Pietro non c’erano macchine, le uniche erano di qualche straniero europeo che veniva in visita alla basilica e parcheggiava l’automobile, con una
targa strana per i ragazzi, a ridosso del colonnato. La comitiva del condominio era molto affiatata e vitale, scherzavano tutti tra loro e si rincorrevano per la piazza, ansimando e sputando ogni tanto per lo sforzo compiuto nel non farsi prendere dagli amici. Oppure si
cimentavano con il salto alla corda, a chi resisteva più tempo a saltare sui propri passi, o con il salto delle colonnine che circondavano l’obelisco posto al centro della piazza. Alcune volte erano le ragazze che resistevano più dei maschi, e questo le spingeva a prenderli in giro. Altre volte, invece, i soli maschi si recavano alla Mole Adriana per sfidarsi al calcio, sei contro sei.
I campi in erba erano al di sotto dei muraglioni di Castel S. Angelo, e i ragazzi, prima di scendere verso i prati tiravano fuori dalle loro sacche le divise e gli scarpini con i sei
tacchetti, identici a quelli adoperati dai giocatori professionisti nelle partite di serie A.
Incuranti della gente che passava sul marciapiedi, i ragazzi, utilizzando la staccionata di legno per posare le loro cose, si spogliavano tranquillamente, rimanendo per un attimo a
torso nudo e in mutande. Loro non ci badavano proprio alla nudità, e sembrava che
neppure alla gente importasse molto, perché ritenendoli ragazzini proseguivano a passo svelto il cammino verso direzioni prestabilite.
Roberto era per antonomasia il difensore, ma a volte, quando si formavano le squadre,
assumeva anche il ruolo di portiere. Non che facesse parate strepitose, ma dalla sua posizione di retroguardia gridava e incitava i compagni ad attaccare e segnare i gol. Il ruolo di difensore era in linea con la sua indole caratteriale. Conoscendolo le persone avrebbero detto «Roberto? È un buono» nel senso che non aveva un carattere aggressivo, ma al contrario si prodigava sempre ad aiutare gli altri; era un compagnone, talvolta anche un po’ ingenuo, perché aveva fiducia nelle persone e credeva a tutto quello che gli dicevano (o a buona parte) del loro vissuto. Era ottimista e allegro, la battuta non gli mancava mai, e quando i ragazzi si riunivano a casa di qualcuno di loro per fare una spaghettata, Roberto animava molto la tavola.
Gli amici lo volevano sempre con loro, per una vacanza, una visita a un parente, per cercare di accompagnare un genitore a fare spese; lui non diceva mai di no, ed erano contenti di averlo vicino in frangenti che altrimenti li avrebbero annoiati.
Roberto, negli anni dell’adolescenza, come tutti i suoi compagni, cercava di intrufolarsi nelle feste da ballo per conoscere qualche ragazza. Spesso, però, andando a
ballare in casa di altri conoscenti, quando andava a invitare una ragazza veniva rifiutato. Lui si mortificava molto, e a quei rifiuti ci rimaneva male. Abbozzando un leggero sorriso, facendo credere a sé e agli altri che non era successo nulla, andava a sedersi in
disparte e iniziava a fumare. Le aspirazioni del fumo e le volute che uscivano dal naso e dalla bocca, gli davano coraggio; la sigaretta riusciva ad aiutarlo e lo sosteneva nelle situazioni pesanti, come nel caso di un rifiuto, o anche quando doveva fare lunghe file
alla segreteria dell’Università. Negli anni Sessanta si poteva fumare tranquillamente in ogni angolo, e Roberto approfittava sempre di questa possibilità.
Era simpatico, questo sì, ma un po’ obeso, non molto, ma come si dice a Roma, passava sempre per un “simpatico cicciottello”; non che qualcuno lo chiamasse con questo appellativo, per carità, sarebbe morto di dolore e di dispiacere! Ma le ragazze
fisicamente lo rifiutavano, si vedeva, affettivamente, gli volevano bene, d’altra parte lui le faceva ridere molto con le sue battute, e questo gli permetteva di essere vicino alle ragazze o, alle “donne”, come dicevano i maschi all’epoca. La madre di Roberto era una
delle migliori cuoche del condominio. Avendo vissuto molto le privazioni a causa della guerra, con farina, zucchero e uova era capace non solo di creare pane o splendide
fettuccine, ma anche dolci di ogni tipo: dai tozzetti al pan pepato, dalle crostate al pan di spagna…
Il fatto di essere molto dotata in cucina, aveva condizionato molto presto il rapporto con Roberto, al quale voleva un “bene dell’anima”. Fin da piccolo aveva abituato
Roberto alle sue leccornie, che iniziavano la mattina con l’uovo sbattuto e si
concludevano la sera con pasta e ceci o riso e piselli. A causa di questo ménage Roberto era in sovrappeso; e, quando era più piccolo, la madre, per essere libera quindici giorni
ad agosto, lo mandava in colonia, ovviamente al mare, perché il medico gli consigliava
l’aria marina che rendeva inappetenti, in modo da farlo dimagrire un po’.
Gli amici di Roberto, perlopiù magri e longilinei, avevano sempre diverse ragazze che li cercavano; e, sapendo di essere attraenti, facevano finta di “fidanzarsi”, e poi, con una scusa, le lasciavano, e quelle, gira e rigira, andavano sempre a sfogarsi con Roberto. Lo sfogo consisteva in lunghe chiacchierate con toni accesi o dimessi, alcune volte ci scappava anche il pianto, e Roberto, con le sue parole affettuose e il suo ottimismo, le induceva ancora a sperare, ad avere coraggio, a comprendere il gesto di abbandono dell’amico che non era proprio cattiveria, ma necessità, immaturità, incertezza. Da questi lunghi sfoghi le ragazze sembravano riprendersi e rimanevano poi amiche sincere di Roberto. Una volta, una di queste, alleviata l’angoscia, abbracciò d’impeto Roberto e gli dette un bacio sulla guancia. Lui, struggendosi di commozione, con gli occhi umidi, corse nella sua stanza, aprì un quaderno dove riassumeva i suoi pensieri, e di getto scrisse una poesia, idealizzando quell’incontro che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. L’affetto delle donne era un sostegno per lui e, nelle situazioni di sofferenza fisica e morale, correva a ricordare i rapporti profondi che si era costruito e che gli davano la forza per andare avanti.
Questi continui rapporti fatti di ascolto dei problemi, principalmente delle donne, di affetto, di soprusi e ingiustizie ricevute, di abbandoni e di esperienze lavorative non
positive, avevano dato fama a Roberto di “saper ascoltare le donne”, e questo ascolto,
divenuto ormai quasi professionale, Roberto lo documentava, esibendo agli amici, orgoglioso, tutte le cartoline e le lettere di saluti e ringraziamenti che le sue “donne” gli
mandavano. Era questo il motivo per cui, nella sua situazione angosciosa, Gabriella
aveva pensato a Roberto, sicura che con lui si sarebbe aperta e forse, parlando a lungo del suo problema, avrebbe potuto scoprirne il motivo e il significato.
Quando Gabriella arrivò a via dei Gracchi, era pomeriggio inoltrato; dopo aver citofonato, sulle scale l’accolse Roberto con un largo sorriso. «Cara Gabriella, che piacere vederti! Vieni» disse premuroso, facendola accomodare in casa. Subito sul saloncino si affacciò la madre di Roberto che salutò anche lei Gabriella affettuosamente.
Roberto con tono imperioso ordinò alla madre di preparare il tè, chiedendo a Gabriella se gradiva quello verde o alla menta; poi si sistemarono comodamente nella camera di Roberto. «Come va il lavoro?» chiese Roberto. «Molto bene» disse Gabriella, «anche con i colleghi sono riuscita a instaurare un buon rapporto. Comunque siamo quasi tutte donne e con alcune ho fatto subito amicizia, ci stimiamo e ci aiutiamo quando occorre… Ti ho disturbato forse? Avevi da fare oggi pomeriggio?». Lui scosse la mano per fugare ogni dubbio: «No no, stavo solo cercando tra le pagine di questo libro di storia qualcosa
di interessante per utilizzarlo in un racconto che sto buttando giù». «Ah, bene, poi me lo farai leggere», esclamò lei sorridendo. «Se lo scrivo, volentieri» rispose lui schermendosi con un risolino. L’atmosfera che sembrava all’inizio grave e carica di presagi nefasti si alleggerì, e Roberto prese come suo solito a fare domande.
«Ti è successo qualcosa, hai qualche problema? Sei sicura che va tutto bene?». Gabriella non si fece pregare: non aspettava altro, e cercò di aprire il suo animo meglio
che poteva. «No, non va bene nulla, sono disperata» disse in tono angosciato. «Come?» domandò Roberto con la fronte corrugata. «Spiegami».
«Senti, Roberto» iniziò, posando la sua mano su quella dell’amico. «Se ti confido una
cosa, mi prometti di non ridere? Non mi prenderai in giro, vero? Soprattutto quello che sto per dirti non deve uscire da queste mura». «Ma scherzi, cara Gabriella?!» esclamò in tono preoccupato e incuriosito. «Ti risulta che io i fatti personali degli altri li pubblichi sul gazzettino del quartiere? Ebbene?» soggiunse, mentre cresceva la sua curiosità.
«È un po’ di tempo che quando qualcuno mi tocca per salutarmi e mi abbraccia, o mi guarda un po’ più a lungo del solito, soprattutto se è donna, mi assalgono delle
sensazioni di piacere, piacere erotico» aggiunse preoccupata, «che mi avvolgono mente e
corpo abbattendomi. Perché sia chiaro, io non voglio diventare lesbica!».
«Come!» esclamò Roberto, che ancora non capiva bene i sintomi che l’amica gli spiegava. «No, scusa, mi stai dicendo che principalmente quando vieni toccata o guardata da una donna, senti del piacere “preoccupante”?». «Sì, anche se vedo magari una fotografia dove magari c’è una donna in un atteggiamento “particolare”». «E se invece ti guarda un uomo?» chiese lui. «No, un uomo non mi fa nulla». «Magari ti imbarazza» insinuò Roberto. «No, neppure quello. Non mi fa nulla e basta! Poi, non ti dico come sta la mia testa, ho paura d’impazzire!». «Lo credo», rispose Roberto, in tono riflessivo, «perché essere quello che tu rifiuti scatena un conflitto senza soluzione: ecco il tuo mal di testa.Ma Giacomo sa tutto questo?».
«Scherzi?! Se provassi a dirglielo, rimarrebbe turbato. Lui poi semplifica molto e fa ricadere tutto su di me, come se io fossi responsabile dei miei pensieri. Ma ti assicuro
che io non voglio assolutamente diventare lesbica».
«Piano, piano, Gabriella, tra il pensare e l’essere non c’è di mezzo il mare ma quasi. Il problema è che ti senti colpevole solo a pensarle queste cose». «Già, è vero» commentò.
«Beh, da questo punto di vista, ho letto una volta che una suora aveva la tua stessa sintomatologia». «Aveva paura di diventare lesbica?!» esclamò stupefatta. «No, che dici», rise Roberto. «Ma aveva dei pensieri erotici di un rapporto con Gesù, e questo
naturalmente lei non lo voleva e inorridiva!». «Ci credo! Come la capisco!» commentò con tono commosso. «Io penso, invece», seguitò Roberto, «che se uno ha dei pensieri e
non li mette in pratica, non può mica considerarsi colpevole. Se io penso di voler fare una rapina alla posta per procurarmi il denaro e poi non la faccio, non mi mandano certo a Regina Coeli!». «Certo che no» disse Gabriella, e questa semplice considerazione
sembrò calmarla un po’. Come aveva intuito, parlare con qualcuno facendo uscire da sé il problema che viveva, le aveva dato la possibilità di osservarlo meglio con distacco, togliendo e controllando tutta l’emotività suscitata in lei dalla visione di un suo rapporto
con un’altra donna lesbica! Sarebbe poi stata capace di farlo veramente? Mentre si faceva questa domanda, la madre di Roberto entrò con un vassoio di metallo e posò le tazze con lo zucchero su un piccolo tavolino a lato della scrivania di Roberto.
«Mi ha fatto molto piacere rivederti» disse la madre, «era parecchio tempo che non ci si vedeva». «Eh, cara signora, ormai con il lavoro, di tempo ne ho poco; anche se alle quattro esco dall’ufficio, poi ho sempre delle cose da fare. Con Roberto però riusciamo a vederci. Anche con gli altri; chi lo dimentica il condominio di via dei Gracchi!» disse ridendo. «È unico!». «Ah, certo, con tutti quelli che ci abitano puoi ben dirlo strano, compresi noi». E uscì dalla stanza sorridendo.
Sorseggiavano il tè in silenzio, soffiando di tanto in tanto sul liquido per raffreddarlo. Roberto cercava mentalmente di sviluppare un’idea, un possibile rimedio al disturbo ossessivo della sua amica. Gabriella, come suo solito, prese a dialogare con sé stessa.
Dovrei dirlo alla mamma, forse anche lei è giusto che sappia quello che vivo. Certo, cercherebbe di sminuire il mio vissuto per farmi piacere, ma poi, in fondo, sarebbe preoccupatissima. La conosco bene, non resisterebbe più di due giorni, poi lo
confiderebbe a papà. Oddio, a papà no! Neppure a mio fratello o a mia sorella maggiore. Basta. A nessuno di questi, me lo tengo e basta!
Dopo l’ultimo sorso Gabriella mise la tazza sul tavolinetto e chiese a Roberto: «Sì però, i trasalimenti erotici che vivo come te li spieghi?».
«Beh, intanto dobbiamo chiederci il modo di toccarti. Non credo che se ti do la mano
come faccio, per esempio, per salutarti, trasalisci subito!». Gabriella ci pensò un attimo, poi affermò con tono stanco: «Sì, è vero, dipende molto dall’atteggiamento, dall’espressione. Però, se mi abbraccio con una donna, la sensazione erotica parte subito!».
«Guarda», cercò di spiegare Roberto, «se si stimolano alcune parti del corpo, a prescindere da chi lo faccia, anche contro la nostra volontà noi rispondiamo. Pensa che
una volta un’amica di mia sorella mi dette per poco tempo da tenere la sua bambina di otto mesi. Ebbene, sedendomi, inavvertitamente il peso dell’infante mi pigiò sulle parti
intime. Non voglio dire che partii per la tangente, come mi hai descritto tu poco fa, però una piccola sensazione di piacere l’ho avuta e ho posato immediatamente la bambina sul tappeto. Adesso hai capito meglio quello che voglio dire?».
«Tu mi dici che chiunque può toccarci alcune parti sensibili del corpo, e poi questo può rispondere indipendentemente dalla nostra volontà?». «Certo, brava! Altrimenti non penserai mica che avrei voluto avere un contatto con la bambina per trarne piacere!»
fece Roberto mettendo le mani avanti. «Poi» proseguì «vuoi proprio sapere come la penso?». «Certo» annuì lei. «Bene, secondo me, abbiamo dentro di noi una parte maschile e una femminile: quindi, a seconda di chi ci tocca, se per esempio è un maschio
avremo un ottanta per cento di mascolinità che non reagirà, ma un venti per cento femminile che sentirà piacere. L’inverso, se siamo donne e ci tocca un maschio, la gran
parte femminile di noi reagirà insieme alla nostra volontà positivamente, ma ci sarà anche un venti per cento di femminilità, che potrebbe anche ugualmente provare piacere!». «Ah, tu dici che se mi tocca una donna è il mio venti per cento femminile che
reagisce? Che vuole il rapporto?». «Che lo voglia non lo so» disse Roberto, «che reagisca sì».
«Ah, quindi è il mio venti per cento femminile che mi fa impazzire» esclamò
Gabriella ridendo. «Sì, adesso non so bene le percentuali, ma se ti fa piacere pensale! Quello che voglio dire è che le nostre due parti, la maschile e la femminile, possono
reagire anche se toccate da una persona dello stesso sesso. Sta poi alla nostra volontà di dar seguito al contatto o meno».
Questo esempio di Roberto, basato sulle percentuali di femminilità e mascolinità che avremmo come trascrizione genetica, sembrò avere aperto una breccia nell’animo di
Gabriella, perché fin sulla porta di casa riuscì a mantenere un lieve sorriso sul viso. Si
salutarono e si baciarono come due vecchi amici, promettendosi di monitorare il fenomeno.
Accettando le due dimensioni del corpo, come aveva detto Roberto, e non ritenendosi
colpevole per il solo pensiero di avere un rapporto con una donna, Gabriella si liberò dalla sua angoscia e riuscì ad affrontare meglio la situazione.
Quando rimase solo nella sua stanza, nell’attesa della cena, Roberto ripensò al problema di Gabriella, alla sua stranezza e alla manifestazione della realtà, agli inganni dell’inconscio nella vita, che ci prende con vissuti inimmaginabili e ci condiziona la quotidianità, dandoci un’immagine di noi, di piccolezza e impotenza, come del resto si dovettero sentire i primitivi o gli antichi di fronte ai fenomeni naturali violenti e cruenti. In cuor suo si sentiva anche un po’ soddisfatto e inorgoglito di aver tirato fuori quella ipotesi sul malessere dell’amica. Per un attimo si meravigliò, ma accettò il suo volo pindarico e si immerse di nuovo nei suoi appunti e nelle letture. Spesso Roberto, quando gli argomenti che leggeva lo interessavano molto, prendeva a sottolineare con la matita i passi più importanti o scriveva dietro il libro, nelle ultime pagine di solito bianche, riflessioni, giudizi, sintesi dei pensieri complessi elaborati dagli autori.
Sembrava, più che leggere, che Roberto li studiasse quei libri, per accrescere le sue conoscenze e per raffinare la sua cultura, che avrebbe poi esibito davanti alle donne per
risultare simpatico e amabile, un po’ come il vino che non è un granché ma si apprezza ugualmente! Era una sorta di equilibrio che Roberto tentava di costruire; nell’impossibilità di essere desiderato fisicamente, poteva almeno esserlo
intellettualmente e caratterialmente, anche se la difficoltà di realizzare questo secondo obiettivo era molto più difficile rispetto al primo.
Nonostante avesse avuto una formazione tecnico-scientifica, sentiva di avere una sorta di buco, di vuoto da riempire: «l’Umanesimo», la comprensione dell’uomo e della gente tutta, nelle loro manifestazioni di vita e nei problemi connessi a questa.
La sottolineatura si arrestò di colpo, lo squillo del telefono lo avvertì che qualcuno lo cercava. Era Dora, Dorina come tutti nel condominio la chiamavano. Abitava al sesto e ultimo piano, una ragazza bruna con i capelli a riccioli, un po’ minuta ma graziosa come
presenza e accattivante nel suo modo di parlare ed esprimersi. Roberto sentì al microfono della cornetta la sua voce concitata che spiegava il rifiuto di Sandro di
continuare il rapporto sentimentale con lei. Sandro abitava al quinto piano, proprio sotto la colonna di Dorina, e per un paio di anni era stato compagno di classe di Roberto, poi i genitori avevano deciso di fargli cambiare scuola perché, dicevano, il professore di
matematica lo aveva preso “sottocchio”. Sandro era magro e slanciato, con un leggero mento sporgente che gli conferiva un’aria da intellettuale (l’opposto di quel che era!). Per il suo fascino le donne, non appena lo conoscevano, volevano subito il suo numero di
telefono.
Dorina parlava concitata, con un tono a volte sconsolato a volte rabbioso; poi all’improvviso non si controllò più e cedette in un pianto. A quel punto ci volle tutta l’abilità di Roberto nel calmarla.
«Non ti merita, cara Dorina, se non apprezza tutto quello che hai fatto per lui: le tue premure, il tuo interesse, il sacrificarti sempre ai suoi orari e alle sue stranezze, altrimenti non si decideva nulla. No, non ti merita, lascia perdere! Guarda, se vuoi ci parlo io con Sandro, cerco di capire quali margini ci sono per continuare il rapporto». Dorina, inorgoglita, glielo vietò: «No, lascia stare, Roberto, tanto si pentirà di quello che ha fatto, e io di certo non torno indietro, non voglio essere il tozzo di pane da mandare giù a forza con un bicchiere d’acqua».
«Ma sì», concordò Roberto, «vai per la tua strada, tanto con Sandro non ci fai molto; a che ti serve uno così! Tu hai tante belle qualità, vedrai che tra non molto qualcuno
interessante busserà alla tua porta».
Dorina accettò quell’immagine e ringraziò Roberto per il suo intervento, lo esaltò salutandolo, dicendogli che era una brava persona, un vero amico, affidabile. «Un giorno
anche tu sarai felice e io sarò felice insieme a te» si congedò Dorina.
Roberto, posata la cornetta, iniziò a fantasticare. Guardava con un sorriso un po’ ebete il ritratto di Neruda che aveva davanti alla scrivania, e immaginò abbracci e baci
profondi da parte di Dorina, ma anche di altre, alle quali lui si sarebbe dedicato
volentieri per renderle felici. In realtà, già sapeva tutto della fine del rapporto tra Dorina e Sandro, perché Carlo V, così chiamava l’amico a causa del suo mento, gli aveva
raccontato tutto e si era sfogato dicendo che non ne poteva più perché lei lo pressava e
controllava di continuo, e lui non respirava più. Roberto gli aveva suggerito per correttezza di dirglielo, e lui aveva seguito il consiglio. Ecco il significato della
telefonata di Dorina.
Il giorno seguente, durante la pausa pranzo, mentre Roberto era disteso sul letto a digerire, gli arrivò la telefonata di Gabriella che gli chiedeva di vederlo al Bibo Bar, un locale vicino a piazza Venezia, frequentato da giovani e da studenti. Nel sentirla Roberto domandò subito come andasse, e lei rispose con un «Così così», nel senso che a volte riusciva bene a controllare le sensazioni intriganti, altre volte «partiva per la tangente», come diceva lei, fissandosi sulle immagini più sensuali. Roberto le dette appuntamento per l’indomani pomeriggio, e lei accettò.
Il Bibo Bar era un locale molto grande, con due entrate e due piani. La pianta era a forma quadrata, e dal primo piano si aveva una visione panoramica del locale. I tavoli
erano quasi tutti fissi, ancorati al suolo, e alcuni, invece delle sedie, avevano le panche. Al centro del locale, al piano terra, c’era la zona lavoro, sempre a pianta quadrata, e si
vedevano i camerieri che preparavano le ordinazioni. In genere si muovevano di corsa, non stavano mai più di due minuti fermi; mentre avviavano alla cottura o alla caffetteria le cose richieste, subito organizzavano un’altra comanda e, tra l’andirivieni che nasceva,
ogni tanto si scontravano tra loro o si frenavano bruscamente. Il locale era arredato con i vetri, ed entrava sempre molta luce; anche alcuni tavoli avevano il vetro e i lampadari che riflettevano la luce sulle superfici, e davano un’aria di modernità e di pulito che lo
rendeva attraente.
La clientela era molto giovane, perlopiù erano studenti che parlavano di materie e di esami, oppure di versi, erano coppie che si erano conosciute nelle aule universitarie e
venivano al Bibo per stare vicini, toccarsi e rimirarsi languidamente l’uno negli occhi dell’altro. Era un bel clima, e la vista su piazza Santi Apostoli rendeva la permanenza gradevole.
Roberto arrivò qualche minuto prima, entrò nel locale che conosceva bene e andò deciso verso la scala che portava al piano superiore. Mentre si toglieva il giubbotto imbottito, il cameriere gli chiese se era solo, e rispose che aspettava una persona e avrebbe ordinato non appena questa fosse arrivata. Prima di sedersi al tavolo prese un giornale quotidiano, lo stese ben bene sul tavolo, poi iniziò a leggerlo.
Gabriella arrivò poco dopo, mentre Roberto finiva di leggere la cronaca. Si salutarono con larghi sorrisi, e lei gli chiese se era molto che aspettava, lui scosse la testa e la invitò
a sedersi, chiedendole come stava. «Come sto?» rispose con un sospiro. «Meglio direi,
però anche questa settimana mi sono venuti dei dubbi che hanno aumentato di nuovo la mia ansia».
«Quali?» le chiese. «E se, in fondo, la mia omosessualità mi piacesse?» disse con
voce rotta dalla emozione». «Io lo trovo improbabile» la interruppe subito Roberto,
«visto che non lo sei mai stata e hai preferito sempre i rapporti etero e solo quelli». «Sì, sì, lo so, questa è la razionalità, però sento continuamente qualcosa che mi attrae verso
tutto ciò che è donna. Anche ieri, per esempio, mi è capitata in mano una rivista con la foto di una bella donna, giovane, truccata, ben acconciata e con i capelli intrecciati che erano stupendi. Improvvisamente ho sentito che il cuore mi batteva e mi sentivo attratta
verso quella bella figura che mi assaliva».
«Beh, poteva essere un sentimento legato ad una fantasia di amicizia, ossia era magari il tuo desiderio di avere quella donna come amica».
«Sì, può darsi che tu abbia ragione, che sia proprio così. Però era il sentirmi attratta da quella figura che mi metteva paura e angoscia».
«Rassicùrati» disse Roberto con tono calmo e persuasivo. «Perché non ti imponi una regola forte e decisa del tipo “Finché il mio corpo nudo non sarà unito fortemente con quello di un’altra donna, io non posso e non devo considerarmi una lesbica”?».
«Altrimenti?» chiese lei. «Altrimenti» tentennò Roberto, come se cercasse dentro di sé una vera motivazione, «se si verificherà, dovrò considerarmi una donna che ama altre donne». «Come, altre donne!» esclamò offesa e irritata Gabriella. «Scusa, volevo dire al
singolare», corresse.
Era questa l’idea assurda e inaccettabile che la teneva in ostaggio, che non le faceva vivere un’esistenza serena, ambiziosa, con qualcosa da costruire che potesse incidere
significativamente sulla sua stima e il suo valore. Voleva essere amata da un uomo, ma alla pari, rispettata e incoraggiata nel suo cammino.Voleva, come altre donne, includere
nelle sue aspirazioni quella di diventare madre, creare un essere che avrebbe cresciuto e amato per tutta la vita. Un essere tutto suo! A questi pensieri lui si commosse un po’, poi di nuovo con rabbia tornò a considerare il suo malessere.
«Secondo me», disse Roberto, sorseggiando una bevanda tropicale che aveva ordinato, «tu dai troppa importanza alle sensazioni che vivi, ci credi così tanto che le assumi subito come vere, senza nessun tentennamento o ripensamento, quindi se le vivi
come vere sono vere! E poi ci stai male. Che ne dici di questa ipotesi?».
«Dico che è vera, e ci rivedo un po l’atteggiamento di mia madre, sempre attenta e guardinga a ciò che possa nuocerle». «“È bene che controlli sempre se c’è pericolo nelle tue azioni” mi diceva fin da giovane. Chissà, forse ora io le sto obbedendo ciecamente».
«Invece», proseguì Roberto, «devi fidarti più del principio di realtà e assumere come vero ciò che vivi realmente, non fidarti della sensazione, dell’intuito, che possono essere stati di presagi che poi non si manifestano, lasciando solo inquietudine e tristezza».
«Sì, hai ragione» disse Gabriella, rassegnata a questa nuova visione che Roberto le stava offrendo. «Ma come si fa? Secondo me non è semplice: ci proverò, te lo assicuro! Farò di tutto per stare meglio».
«Senti, perché non ci vediamo un pomeriggio a casa mia? Così magari proviamo a fare un po’ di Yoga insieme, perché secondo me hai bisogno di un po’ di calma e di rilassatezza, che ne dici?» propose Roberto. «Yoga?!» esclamò Gabriella. «Non l’ho mai
fatto, che cos’è?».
«Beh, essenzialmente è un metodo immaginativo che aiuta a star bene. Non vedi più te che diventi lesbica, ma altre figure più positive».
«Voglio provare», disse con un leggero entusiasmo Gabriella, «pensare e vedere altre
cose da quelle viste finora, penso mi sia utile».
Stabilirono di vedersi un mercoledì pomeriggio intorno alle diciassette circa, a casa di Roberto. Si salutarono e Gabriella lo abbracciò con affetto sincero. Quando si allontanò, Roberto rivisse quella sensazione spontanea di calore con grande gioia e soddisfazione; si sentì importante. Una donna lo aveva abbracciato, e questo era per lui un segnale che una ragazza poteva volergli bene. Iniziò a camminare a passo svelto verso la fermata dell’autobus.
Piazza Venezia era piena di luci. Il traffico serale non era pesante e l’aria che li investiva sembrava scuoterli piacevolmente, come quando d’estate per scherzo, qualcuno ci butta dell’acqua fresca addosso che ci fa urlare e ridere di gioia. Camminavano vicini in direzione dell’autobus, per andare a riprendere la macchina fuori dalla ZTL. Gabriella infilò il braccio in quello di Roberto e si avvicinò ancora di più a lui. Roberto senti il cuore battergli, l’amica era molto vicina e, quella vicinanza lo riconduceva a desideri che a stento riusciva controllare. Dopotutto pensava, Giacomo è così cretino, così maldestro verso di lei che se riuscissi a far interessare Gabriella a me che male ci sarebbe!
Il bus arrivò quasi subito e trovarono due posti vicini. Il braccio di lei era sempre infilato in quello di Roberto e, ad un tratto forse stanca della giornata e della tensione che viveva, si inclinò ancora di più con il corpo verso l’amico. Per diversi secondi Roberto chiuse gli occhi e le sensazioni corporee di Gabriella furono vivide ai suoi sensi. Sentiva il proprio corpo che si abbandonava a quella piacevolezza e con l’aiuto della sensibilità si erotizzò di nuovo. L’auto fece una brusca frenata per evitare una collisione con una macchina davanti e le porte si aprirono. I due amici scesero e dopo pochi passi giunsero alla macchina. Mentre arrivavano all’abitazione di Gabriella si accordarono per sentirsi al telefono e decidere cosa fare.
Si stava innamorando di lei? L’amica che gli confidava le sue pene, che credeva in lui e nel suo rapporto confidenziale? L’intimità, è qualcosa di nostro, molto particolare, che
non va esibita a nessuno, solo a pochi “eletti”. Se è così preziosa, allora condividerla
con qualcuno deve rivestire un simbolo di grande stima, affetto, amore. Ho letto da qualche parte che parlare della nostra intimità è come iniziare a spogliarci di fronte ad un altro. L’avanguardia del nostro amore.
Questa parola della sua sintesi risuonò nella testa. Sarebbe riuscito finalmente a varcare il confine dell’ascoltatore, del confidente, per arrivare ad amare, a corrispondere con una donna i suoi sentimenti? Come sempre, la paura del rifiuto , del non essere voluto se non come essere parlante, lo prese e si irrigidì, perché questa idea gli dava l’immagine della solitudine , della rassegnazione, dei suoi limiti e dei suoi dispiaceri. Arrivò a casa esausto e si gettò sul letto vestito. Ebbe appena la forza di togliersi le scarpe e si addormentò.
Dopo due giorni Gabriella entrò nella sua stanza e si sedette sul divano. Parlarono del loro lavoro e dei contrasti tra i colleghi e i coordinatori che li gestivano. Gabriella con il
suo carattere mite, essendo l’ultima assunta, acconsentiva sempre ad aumentare il carico di lavoro che sarebbe toccato agli altri, mentre Roberto doveva far fronte a dinieghi ed
assenze da parte dei suoi collaboratori. Le angosce dell’amica, andavano e venivano. Ora l’assalivano e l’abbattevano ora, la lasciavano quasi indifferente, aprendogli una speranza di guarigione a cui lei neppure credeva.
«Con Giacomo come va?» chiese Roberto, «Sono scesa giù la scorsa settimana. È sempre uguale, sospettoso! Mi chiede sempre con chi vado e con chi parlo. È di una gelosia esasperante». «Questo è per controllarti a trecentosessanta gradi, tutto tondo».
«Sì, e si arrabbia come una iena se per caso vado o vengo a contatto con persone a lui non gradite». «Uno scrigno da tenere sotto chiave! Come ti vedi come “scrigno”?». «E me lo chiedi ?» rispose con tono abbattuto, allungando le braccia e il corpo verso il
pavimento sconsolata. «Come facciamo da diverso tempo poi, prima che partissi abbiamo avuto il solito litigio». «A proposito di cosa?» chiese l’amico,
«A proposito della mia relazione durante l’anno che ci siamo lasciati, con quel ragazzo di Fermio». «Ebbene?». «Voleva sapere nei minimi particolari come mi ero comportata durante il rapporto, del tipo “Sono meglio io o l’altro”? Sai, gli uomini ci tengono alle
loro performance sessuali». «E te?», chiese ancora Roberto. «Io? Io cerco sempre di minimizzare tutto per non offrirgli nessun pretesto. Ti raccontai, no? quando ci siamo rimessi insieme cosa mi disse…». «Non me lo ricordo» rispose Roberto incuriosito.
«Quando seppe della mia relazione , deve esserci rimasto male; mi proibì assolutamente di rivederlo». «E anche di vedere altri uomini» aggiunse l’amico, «a meno che non si chiamino Giacomo».
Gabriella lo fissava con sguardo profondo, quasi a indovinare le conclusioni delle sue considerazioni, che avrebbero aperto scenari nuovi sul suo caso. «Come?» chiese, come
se volesse sapere di più di quello che Roberto diceva. «Penso, cara Gabriella, che Giacomo deve averti imposto questo tipo di cognizione: “se vuoi stare di nuovo con me , non devi guardare , né frequentare, né accostarti a nessun uomo”. Te, per salvare il
rapporto che era già incrinato , hai non solo obbedito ciecamente, ma hai assolutizzato l’imposizione». «Che cosa intendi per assolutizzare?». «Assolutizzare è qualcosa che non ha deroghe, è quella cosa e basta, non si discute! A volte può essere imposto da altri, ma
a volte anche da noi stessi». «Dici?» chiese con tono poco convinto. «Dico di sì», esclamò, «ovviamente tutto questo processo credo sia inconsapevole. Del resto, se uno non può assolutamente guardare gli uomini cosa sarà portato a vedere?». «Le donne»
disse lei. «O i bambini, o le persone anziane» concluse Roberto, «tutti tranne gli uomini». Ora l’amica lo guardava sconsolata e muta.
«Ecco perché», riprese Roberto, «le donne e le figure femminili esercitano così tanta attrattiva da suscitarti reazioni sessuali estreme». Erano uno di fronte all’altro e tacevano,
si guardavano con commiserazione e meraviglia di aver scoperto insieme il tipo di
sostanza che avvelenava pian piano la vita di Gabriella. Trascorsero ancora un paio di minuti riflettendo, come quando inginocchiati si prende la comunione e si sta con il capo
sorretto da una mano, poi le loro braccia si allungarono e si trovarono. Le dita si
aprirono e si intrecciarono. Si tennero così, fianco a fianco, guardando il soffitto e la parete della camera di Roberto tappezzata dalle foto dei suoi “grandi poeti”. Ancora in
silenzio, poi Gabriella posò la sua testa sulla spalla di Roberto, lui si chinò sulla sua
testa, chiuse gli occhi e si sentì in paradiso…
Formulata l’ipotesi riguardo alle cause dello strano fenomeno che angosciava Gabriella, non si videro per oltre una settimana. Il lavoro di fisioterapista di Gabriella la prendeva molto, e la coordinatrice della cooperativa in cui lavorava, apprezzandola, le aveva dato un incarico particolare: la riabilitazione di bambini che avevano subìto vari traumi fisici, compresi quelli dovuti al parto.
Gabriella aveva chiesto consiglio a una sua amica di corso, non avendo quasi mai trattato bambini e, in poco tempo era riuscita a prendere la situazione in mano.
Roberto, che stava finendo la scuola di psicoterapia comportamentale-, preparava gli esami, e il pomeriggio, due volte la settimana, per guadagnare qualcosa, collaborava in un istituto di ricovero per ragazzi autistici, preparando piani strategici per migliorare la
loro autonomia . Era un lavoro che portava avanti da diversi anni, e i risultati ottenuti gli davano anche delle soddisfazioni, fornendogli una immagine di se positiva. Ogni tanto,
nell’elaborare le sequenze comportamentali, pensava a Gabriella e un desiderio di amore lo faceva precipitare in uno stato emozionale così intenso da interrompere momentaneamente il lavoro. Con la scusa di accendersi una sigaretta, si allontanava dal
computer e riprendeva a pensare a lei. Inveiva nella sua mente con brutte parole verso Giacomo la cui acuta gelosia aveva reso così fragile Gabriella, verso la realtà e le figure femminili.
Ti proibisco di avere rapporti con altri uomini. Con qualsiasi uomo.
«Ma chi sei, il Giudice della Corte Federale?» mormorava tra sé, con un filo di voce.
«Il problema è che tu non l’ami Gabriella caro Giacomo, ma vuoi solo possederla, desideri il suo corpo, la sua anima, la sua devozione. Ma tu a lei dai appena u n quarto di
quello che ricevi».
Non poteva sopportare tutto questo. Lui invece, dopo i contatti intimi del cercare e ricercare, delle ipotesi e congetture, lui sì che era entrato nell’animo di lei e l’aveva capita. Aveva dedicato il suo tempo alla “donna”, ma ora Gabriella appariva più che la donna da ascoltare e capire, rincuorare, più che la donna da desiderare per sesso e piacere. Lui ora sentiva di volerle bene, la stimava e desiderava stringerla tra le braccia, coccolarla come faceva sua madre con lui. Accarezzarla e inondarla di baci. Provò ad accendere un’altra sigaretta, ma si ravvide e si riscosse subito dalla sua favola mentale. Gettò via tutto e tornò al lavoro.
Qualche giorno dopo, mentre rientrava a casa, trovò nella cassetta della posta una lettera di Gabriella, che lo avvertiva di essere ricoverata in un ospedale di Bologna in
attesa di un’operazione. Roberto corse subito a casa, entrò come un razzo nella sua stanza e iniziò a preparare lo zaino furiosamente.Non pensava a nulla, non vedeva
neppure quello che portava. Inconsciamente aveva già escluso di fare una telefonata per capire la natura dell’ intevento chirurgico. Uscì dalla stanza nella stessa maniera con la
quale era entrato e salutò i genitori.
«Dove vai» chiese la madre piena di meraviglia.
«A Bologna» a trovare Gabriella, ci sentiamo questa sera.
Il padre, osservando Roberto da sotto gli occhiali, sapendo, come altre volte era successo, di non poter frenare il figlio nelle sue decisioni affrettate e inappellabili, con aria rassegnata, senza chiedere nulla gli mise in mano dei soldi e mormorò:«Stai attento».
Mentre era sul treno, cercò di mandare vari messaggi all’amica, anche per avere indicazioni specifiche Sulla destinazione. Seppe così che era a Bologna per essere
operata al cavo orale. Il dentista che doveva metterle una capsula di porcellana a un dente, si era accorto di una macchia al lato della bocca, una biopsia dopo alcuni giorni
aveva rivelato un verdetto infame: quella macchia era un tumore che andava tolto al più presto.
Quando Roberto entrò nella stanza, era pomeriggio inoltrato. Gabriella si era appena
appisolata ma aprì gli occhi sentendo il rumore della porta. Lo salutò un po’ imbarazzata dal fatto di trovarsi a letto davanti all’amico. «Sei riuscito a trovarmi». Roberto si chinò sul letto -e le sollevò il capo. L’abbracciò con delicatezza e le sussurrò «Cara Gabriella». Si baciarono sulle guance come facevano sempre, da amici. Rimasero ancora alcuni secondi abbracciati poi lei suggerì con garbo, di scostarsi perché i genitori sarebbero potuti tornare da un momento all’altro.
«Dove sono?» chiese Roberto. «Sono andati in pizzeria». Gabriella doveva fare ancora alcune analisi-, poi sarebbe stata operata. Chiese a Roberto dove avesse trovato alloggio e lui rispose che-, nei pressi della stazione aveva prenotato una stanza in una pensione a tre stelle-, piccola ma pulita e ben arredata, con le tendine rosse alle finestre e delle poltroncine di finta pelle nella hall.
Gabriella chiese sorridendo notizie del condominio -e Roberto la aggiornò su tutto:- intrighi, nuovi amori, distacchi, tradimenti, persino i mancati versamenti alla portiera da parte dell’amministratore.
Roberto volle sapere se Giacomo fosse venuto a trovarla o si fosse messo in contatto con lei.«N», rispose lei, «è troppo lontana Bologna da S. Giorgio». «Che significa»
replicò Roberto perplesso. «Mi ha fatto gli auguri e mi ha assicurato che mi telefonerà».
Rimasero in silenzio, poi lui si alzò e si avvicinò alla finestra, mentre osservava alcune persone passeggiare nel cortile sottostante prese a riflettere in tono sommesso
quasi parlando con sé stesso: «Mi dispiace molto di tutto questo. Avrei voluto vederti felice e sollevata dopo le conclusioni a cui siamo pervenuti e, questo lo vivo come una mia sconfitta, quasi fosse impossibile raggiungere un’armonia con noi stessi e la vita.
Avrei voluto passeggiare con te per Villa Sciarra e tenerti per mano al mio fianco,
inalando gli odori del parco e riposando lo sguardo al verde delle foglie. Avrei voluto sentirti vicina come quando, ogni volta che ci salutavamo sentivo il tuo corpo stretto al mio-, il tuo seno che mi sfiorava il torace e il mio controllo sul sentimento che mi prendeva e mi strozzava. Avrei voluto….»
Mentre Roberto esponeva queste visioni, Gabriella si alzò in silenzio dal letto e a piedi nudi raggiunse l’amico. Posò la sua testa sulla schiena di lui e lo abbracciò.
Lentamente Roberto si voltò con delicatezza, le cinse la vita e le accarezzò i capelli. I due corpi stretti stretti si fusero e il piacere di scambiarsi affetto a lungo sopito li fece quasi tremare di gioia e di contentezza per essere vicini e toccarsi, senza nessun pretesto
se non quello dell’attrazione e del bene reciproci. Si toccarono a lungo e si baciarono più volte sulle guance sul volto e, fugacemente sulle labbra.
Per Gabriella era gratitudine, tutto quel sentimento che esprimeva pochi giorni prima
di essere operata? O un vero sentimento che avrebbe sotterrato per sempre l’amore per Giacomo?
Sentirsi contraccambiato nei sentimenti per Roberto fu una resurrezione dal limbo dove per tanti anni era stato relegato e da cui, ora rinasceva sotto una nuova veste; il ragazzo, l’uomo fiero di sé e di quello che faceva, amato come i suoi coetanei e pronto ad
affrontare il mondo con l’amore di una donna al fianco.
Roberto in tutta la sua robustezza, sollevò Gabriella da terra e la depose nel letto, le accomodò le lenzuola e sedette vicino a lei dandole la mano.
Parlarono del loro passato, dei loro caratteri, della giustizia e dell’odio, dell’invidia e dell’affetto fraterno. Poi quando Roberto fu sicuro che Gabriella si era donata a lui con amore la salutò. «Vado, prima che tornino i tuoi». «Si, vai». «Passo domani mattina a
salutarti». «No», disse lei, «a mattina c’è la visita del primario, preferisco che mi aspetti a Roma». «Ne sei certa?», chiese con aria interrogativa«Sì ho deciso così».
La baciò sulla fronte. poi uscì. Non si sentiva più solo, sentiva il corpo di Gabriella sempre vicino al suo, la morbidezza dei suoi capelli sul suo viso e le guance calde accostate alle sue.
Si addormentò tardi quella notte. Ogni tanto cambiava posizione nel letto e si domandava se potesse anche lui, come Giacomo, diventare geloso al massimo grado, e impedire a Gabriella di guardare gli altri uomini. Trovò tutto questo assurdo, e si rifece
ai suoi principi di spontaneità e di libertà che ogni individuo doveva seguire, per vivere pienamente,una vita davvero “degna”. L’amore e l’affetto ricevuti lo esaltavano e lo intenerivano, a volte si commuoveva per questo suo donarsi e voler bene, come un
adolescente che sperimenta, per la prima volta, l’amore e il bene che non è di sua madre, ma di un’altra donna.
Di nuovo a casa gli impegni di studio e di lavoro lo distrassero per un po’; appena ebbe finito di pranzare insieme a sua madre in cucina come ogni giorno, ricevette un messaggio sul cellulare. -Gabriella gli comunicava l’esito felice dell’operazione, anche se soffriva un po’ per i punti di sutura vicino al palato, era soddisfatta per quanto le avevano detto i medici e si sentiva molto rassicurata. Disse anche a Roberto quando sarebbe tornata a Roma. Lo ringraziava per essergli stato vicino e gli mandava un’infinità di baci
e molti cuori disegnati che indicavano il suo affetto per l’amico. Roberto condivise la sua soddisfazione e le disse che al suo ritorno le avrebbe fatto visita.
Trascorsi così i giorni della convalescenza in ospedale Gabriella poté tornare a casa e immergersi, in attività che la interessavano, come scrivere gli appunti tratti dalla lettura
di un libro professionale, disegnare con la matita e parlare al telefono con le amiche del
cuore.
Un giorno Roberto si presentò a casa di Gabriella nel primo pomeriggio, poco dopo avere pranzato, ci teneva troppo a salutare e ad abbracciare l’amica, la voglia di esternarle tutta la sua tenerezza era di nuovo nella mente. Entrato nella sua stanza trovò l’amica con una camicetta di seta bianca scollata e un colletto ampio che le metteva in risalto il collo e la pelle liscia e bianca. Una vestaglia azzurra la proteggeva da eventuali abbassamenti di temperatura anche se, quel mese di Aprile era mite e per niente freddo. Distesa su una poltrona girevole, davanti alla sua scrivania, accolse Roberto con un sorriso e le braccia aperte. L’amico l’abbracciò sorridendo ed esternando tutto il suo affetto. Quando si scostò da lei vide sul comodino, vicino al letto, un mazzo di fiori variopinti primaverili. «Belli!» esclamò. «Chi te li ha portati?».
«Giacomo. Me li ha inviati, questa mattina, da S. Giorgio. Questa sera dovrebbe venire a trovarmi». Roberto ebbe un moto di indignazione ed esclamò: «Come?! Dopo
tutto quello che ti ha fatto pa-pa-passare…» Balbettava, confuso. e, «on è neppure
riuscito a starti vicino in momenti così pe- pesanti per te!».
Ci fu un attimo di silenzio.Poi Gabriella spiegò: «Io in verità ho riflettuto a lungo sul nostro rapporto e ho deciso di raccontargli quello che ho passato in questi mesi e di dirgli che non me la sento più di portare avanti la nostra relazione»
«Fai bene, condivido» disse Roberto convinto.
«Devo anche dirti che ho riflettuto ugualmente su quello che considero un tuo interessamento nei miei confronti. Ti apprezzo lo sai, e ho condiviso il tuo affetto, il tuo
bene verso di me. Per un attimo ti dirò, mi sono sentita felice, bene con me stessa, amata
e desiderata da una persona pulita e non falsa come sei tu. Ma ora, che la mia esperienza con Giacomo volge al termine, non mi sento di iniziarne un’altra, anche se ripeto, ti
stimo e ti voglio bene».
Ora con la luce intensa del sole del primo pomeriggio che filtrava dalle tendine della finestra, Gabriella appariva più bella del solito.
Quelle parole così meditate e reali che l’amica gli aveva rivolto, avevano riattivato in
Roberto vecchie angosce e umiliazioni tremori e insicurezze che pensava fossero sopite per sempre o superate. Ci fu ancora silenzio nella stanza, mentre Roberto rifletteva
osservando i colori del pavimento con la testa inclinata un po’ in avanti. Era quello il
momento di urlare tutte queste angosce, tutti i suoi pensieri negativi per liberarsene? Era il momento delle parolacce, delle bestemmie e delle imprecazioni gridate contro il fato, le persone, sè stesso? Forse era il tempo di andare avanti, finire la strada intrapresa, gli impegni, i titoli o le carte che occorrevano per entrare nel mondo del lavoro e liberarsi di tutto, fare esperienze, emanciparsi dagli affetti materni e dai sentimenti di amore che dirigevano il suo comportamento fin dall’-adolescenza e che lo rendevano insicuro, fragile e attento ai giudizi degli altri. Per un attimo intravide dentro di sé la soluzione a questo blocco e intuì che per rinascere doveva morire, come nei miti, nelle storie sacre. La morte annulla ogni cosa, così dopo si può iniziarne un’altra, da principio. Ciò che
doveva seppellire erano proprio gli affetti, che sentiva come un legame e che non lo facevano crescere, non lo lasciavano andare.
Non sapeva chi gliele avesse dette, ma gli ritornarono in mente delle parole che ora trovava giuste e in sintonia con il proprio animo. «Vai per la tua strada». Una frase che
gli dava una sensazione di avanzamento e non di regressione, una strada che comunque
sia portava da qualche parte, verso un’uscita che gli avrebbe dato una realtà più accettabile meno angosciosa di quella che viveva.
Vai per la tua strada, si ripeté nel silenzio della mente.
Quasi di colpo alzò la testa e rispose a Gabriella: «Capisco profondamente quello che provi e le conclusioni a cui sei giunta. Che posso fare? Accettare sicuramente la tua
decisione» disse in tono calmo e riflessivo. «La decisione se confermare o scegliere un
nuovo partner non è il momento di prenderla, soprattutto dopo l’operazione che hai subìto». Gabriella emise un lungo sospiro, come se si fosse liberata di qualcosa che
temeva potesse procurargli altro dolore, altro cattivo umore. Di nuovo l’amico l’aveva
capita! Si strinsero la mano pienamente e si abbracciarono forte baciandosi sulle guance.
«Quando starai meglio e ti sarai rimessa telefonami, organizzeremo qualcosa insieme agli altri amici». «Certo» rispose Gabriella sorridendo e accompagnando Roberto alla
porta.
Qualche giorno dopo, Roberto ricevette una telefonata di Gabriella che lo metteva al corrente di aver ripreso il lavoro e di aver lasciato definitivamente Giacomo. Lo
ringraziava sempre di essergli stato vicino, di averla «capita e ascoltata» e di avergli fatto comprendere che potevano esistere altri uomini, capaci di donare più affetto di quanto lei avesse ricevuto da quel rapporto asfissiante.
Roberto la salutò con poche parole, la testa già rivolta altrove. Era troppo impegnato a riempire scatole di cartone con libri ed effetti personali che avrebbe portato in un nuovo
appartamento, dopo aver deciso di andare per la sua strada.
Marcello Pellegrini è molto attento alle dinamiche comportamentali dei personaggi, inseriti in un continuo gioco di azioni e reazioni, quasi intrappolati in schemi prestabiliti che però tentano di rompere. Il peso dell’amore è anche il tentativo di sfuggire a una forza di gravità che impedisce di volare al di sopra del proprio vissuto e di essere padroni di sé. I due protagonisti, Gabriella e Roberto, non rispondono a logiche narrative stereotipate, ma riescono comunque a trovare la loro strada.
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